di Diana & Wilde
Il cinghiale italiano, tra ricolonizzazione e ibridazione
Si parla tanto del cinghiale ma spesso lo si fa a sproposito. Per affrontare il tema con consapevolezza e la necessaria scientificità è quindi opportuno segnare alcuni punti fermi. Lo ha fatto l'autore di questo articolo, partendo da alcune considerazioni sul cinghiale maremmano
di Giuliano Milana
Il cinghiale! Esiste forse un altro animale che riassuma altrettanto bene l'idea di caccia per noi abitanti del "vecchio mondo"? Dalle rappresentazioni greche, ai mosaici romani passando per gli affreschi etruschi fino alle tele del Rinascimento, l'arte ci racconta, attraverso immagini nitide, momenti di caccia che hanno per protagonista l'irsuto e totemico suide. Dal cinghiale Calidonio ucciso da Meleagro al cinghiale di Erimanto la cui uccisione costituisce la terza delle dodici fatiche di Ercole, il cinghiale ha sempre rappresentato la preda più ambita e la fiera per eccellenza con la quale misurare il proprio ardire e la propria forza.
Ma quale cinghiale abbiamo avuto o abbiamo in Italia e quali sono state e sono le sorti di questa specie nel corso del tempo? I ripopolamenti hanno effettivamente compromesso l'integrità genica della popolazione autoctona? Ed esisteva un solo tipo di cinghiale in Italia?
Per conoscere la storia del cinghiale maremmano, Sus scrofa majori de Beaux et Festa, 1927 bisogna, ancora una volta, andare indietro nel tempo, quando sul finire degli anni Ottanta, si iniziò a diffondere l'idea che le popolazioni italiane fossero ormai snaturate dall'incrocio con i cinghiali provenienti, principalmente, dall'est Europa e appartenenti alla sottospecie Sus scrofa scrofa e, secondo qualcuno, addirittura con i maiali domestici.
Cinghiale italiano, un problema di coerenza
In molti ritenevano che il solo nucleo di cinghiale maremmano rimasto puro fosse quello presente all'interno della tenuta presidenziale di Castelporziano, nel Lazio. Questo tipo di affermazioni e posizioni si basavano principalmente su analisi morfologiche visto che non erano ancora disponibili indagini genetiche per le quali occorre attendere almeno la prima metà degli anni '90. Non si può escludere comunque che anche in altre aree, come per esempio la porzione centro-meridionale della Toscana (Colline metallifere), il cinghiale maremmano non si sia mai estinto. Sono le zone vocate dove è nata la "cacciarella maremmana", come la conosciamo oggi, nella sua forma tradizionale.
Il mondo scientifico però, non è sempre stato coerente in merito alla validità di questo taxon. Ad esempio, in entrambe le ultime due checklist dei mammiferi italiani pubblicate viene accettata l'esistenza di un cinghiale autoctono ed endemico della Penisola italiana. Gippoliti accetta il cinghiale maremmano Sus majori come specie distinta da Sus scrofa mentre la più recente checklist dell'ATIT, Associazione Teriologica Italiana, la ritiene valida come sottospecie, quindi Sus scrofa majori. Mentre, nella Fauna d'Italia (Boitani, Lovari, Taglianti, Mammalia III. Carnivora, artiodactyla, Edagricole, 2010), si parla di sottospecie di "discusso valore" e infine, nell'ultimo Handbook of the Mammals of Europe (Corlatti e Zachos, Mammals of Europe - Past, present, and future, Springer 2022), il Sus scrofa majori non viene nemmeno riconosciuto come sottospecie e ulteriormente declassato a ecotipo.
Alle evidenze morfologiche (craniologiche) che non erano sfuggite già nel 1885 al grande paleontologo Charles Immanuel Forsyth Major (1843-1923) - a cui il majori fu poi dedicato da Enrico Festa e Oscar de Beaux - si sono aggiunte negli ultimi anni interessanti evidenze genetiche che hanno suggerito la conferma dell'esistenza di un cinghiale "italiano" ben distinto da quello del resto d'Europa. Grazie a de Beaux e Festa, sappiamo anche che a partire dal 1919 Piemonte e Liguria vennero ricolonizzate naturalmente da cinghiali francesi, diversi da quelli maremmani.
Pertanto, allo stato attuale delle conoscenze, possiamo dire che storicamente un più minuto cinghiale viveva nel centro sud della Penisola (anche se oltre quella maremmana nessun'altra popolazione è stata effettivamente oggetto di studio prima della sua scomparsa e quasi non esistono reperti conservati nei musei di originari cinghiali peninsulari della Campania o della Calabria, ad esempio), mentre la zona alpina e quella padana erano probabilmente abitate in origine da un cinghiale identico a quello tipico europeo.
I ripopolamenti, pratica un tempo "normale"
Ma veniamo alla nota dolente dei ripopolamenti, in particolar modo nella zona dove è documentata e accertata la presenza storica del nostro majori. Stando a quando riportato in letteratura, sia scientifica che divulgativa, pare che le prime testimonianze di ripopolamento di cinghiali in provincia di Siena siano risalenti alla seconda metà degli anni '60 del Novecento. Non dimentichiamo che tali pratiche non erano mal viste, come giustamente accade oggi, e che il contesto nel quale si operava risentiva ancora di quanto accaduto negli anni precedenti.
Alessandro Ghigi fondò a Bologna quello che nel 1939 fu denominato Laboratorio di zoologia applicata alla caccia e, pur non essendo egli un cacciatore, approfondì molte tematiche relative alla gestione e alla conservazione in relazione all'attività venatoria. Diversi furono gli studi, le ricerche e numerose furono anche le pubblicazioni. Tra i vari esperimenti condotti a Bologna, vi furono anche quelli volti all'acclimatazione delle specie esotiche. Pratica considerata "normale" per il periodo e sostenuta anche da pubblicazioni di carattere zootecnico/faunistico che tessevano le lodi dei cinghiali provenienti dai Carpazi rispetto ai "tapini" cinghiali maremmani.
Un inquinamento genetico comunque limitato
L'inquinamento genetico del cinghiale maremmano sembrerebbe dunque un elemento ormai documentato a livello storico, morfologico e in anni recenti anche genetico. Tuttavia, diversamente da quanto ritenuto in precedenza, stando a recenti studi su materiale genetico, l'ibridazione del Sus scrofa majori con altri ceppi europei e con il maiale domestico risulterebbe ancora abbastanza contenuta.
Quindi se il "nostro" cinghiale conserva ancora una buona porzione del proprio DNA originario, come si spiegano le evidenti variazioni dimensionali e la maggiore prolificità delle popolazioni attuali?
Innanzitutto, queste due variabili non sono assolutamente indipendenti. È noto che il numero di feti che una scrofa è in grado di portare a termine della gravidanza cresce all'aumentare del suo peso corporeo. È quindi prevedibile che a seguito di un aumento delle disponibilità trofiche (alimentari) possano verificarsi, come conseguenze, un incremento delle dimensioni medie degli animali e della produttività. Effettivamente, se valutiamo come si è modificato il paesaggio dell'entroterra peninsulare nel corso dell'ultimo secolo, con la progressiva riduzione dei pascoli e la diffusa riforestazione delle aree collinari e montane, si direbbe proprio che le condizioni venutesi a creare fossero una manna per i cinghiali. Dopo un minimo storico toccato negli anni '20 la superficie forestale del nostro Paese è aumentata di oltre 1.800.000 ha, e dal 1949 l'incremento è stato di circa il 22% (dati Istat). In tale contesto, ha prevalso (con un aumento del 36%) l'espansione delle fustaie, che nel caso delle latifoglie (tra cui querce, castagno e faggio) costituiscono una ricca fonte di cibo per i cinghiali.
Italia, un ambiente in rapida trasformazione
Non possiamo quindi escludere, a prescindere, che le caratteristiche di taglia corporea e scarsa prolificità del majori possano essere legate proprio a quegli ambienti, tipicamente xerici e meno produttivi peculiari delle aree rifugio (Maremma). Ancora oggi, in Europa, i cinghiali di minori dimensioni si trovano proprio in ambienti con queste caratteristiche, come la Sardegna o alcune regioni della penisola iberica.
Quindi potrebbe essere stata anche la successiva ricolonizzazione di aree a maggiore produttività ambientale o l'aumento della qualità di quelle già frequentate, con maggiori disponibilità alimentari, a favorire un accrescimento ponderale e migliori performance riproduttive. Un po' come accaduto per noi umani italici subito dopo le due guerre, con il benessere economico ed il conseguente aumento della statura media.
Non si dimentichi, peraltro, che le dimensioni corporee dei cinghiali subiscono variazioni anche in conseguenza della pressione venatoria, e una forte selezione sugli adulti può indurre una diminuzione media della taglia in un numero relativamente breve di generazioni. Non è quindi da trascurare il ruolo che potrebbe aver avuto viceversa un rilassamento della pressione venatoria nella penisola nel corso dell'ultimo secolo.
Cambiamenti climatici
Circa il fatto di assumere l'anatomia del cinghiale maremmano a campione di quella che deve essere stata in passato la struttura corporea della popolazione peninsulare di cinghiale, occorre anche qui essere prudenti. Come dimostrano approfonditi studi condotti su reperti storici e preistorici, le dimensioni corporee del cinghiale hanno subito profondi mutamenti sia nel tempo che nello spazio. Cinghiali di dimensioni maggiori di quelli presenti all'inizio del XX secolo in Maremma sono esistiti nella penisola in varie epoche e ben prima che l'uomo iniziasse a traslocare animali con relativa facilità. Tuttavia, mentre un raffreddamento del clima in passato può essere stato alla base di incrementi dimensionali (regola di Bergmann), è più difficile immaginarlo come causa delle variazioni più recenti. È però anche possibile che durante le fasi fredde si ampliasse in Italia la distribuzione del cinghiale europeo di grandi dimensioni. Proprio sulla base della possibile coesistenza storica di due forme distinte, che certamente erano in grado di riprodursi ma che di fatto sono rimaste distinte geneticamente, Gippoliti basa la sua ipotesi dello status specifico di majori, probabilmente nei periodi freddi ristretto a poche regioni rifugio a clima mediterraneo.
Anche l'apporto in questo di un'eventuale ibridazione con i maiali domestici è difficile da sostenere, considerato che le possibilità di incrocio tra le due forme in natura nei secoli passati erano ben maggiori di quelle attuali (dato il ricorso al pascolo brado) e verosimilmente maggiori degli attuali incroci effettuati intenzionalmente in cattività.
Per salvaguardare la specificità... bisogna prima riconoscerla
Per finire, circa l'aumento di fertilità nelle scrofe, occorre constatare che il già citato Ghigi nel 1917 scriveva a proposito di queste: «la scrofa partorisce per solito da 4 a 6 porcellini ed anche più». Il che non sembra discostarsi molto dal valore medio osservato nelle popolazioni contemporanee dell'Italia centrale.
In conclusione, a termine di questa mia breve descrizione, sicuramente parziale e non esaustiva, pur avendo fornito attenuanti, credo che vadano comunque ribadite le responsabilità anche del mondo venatorio. I cacciatori hanno certamente contribuito a favorire o comunque ad accelerare un processo di recupero della specie reiterando la pratica dei ripopolamenti, nonostante le nuove scoperte, e anche in tempi relativamente recenti. Detto questo è però molto difficile parlare di salvaguardia di un determinato taxon (una specie o sottospecie in questo caso), perché per farlo è necessario che prima venga riconosciuto. Risulta così abbastanza complicato accusare qualcuno di avere importato qualcosa di "diverso" se le diversità paventate non esistono o non vengono unanimemente riconosciute in primis dalla comunità scientifica!
Personalmente mi sento molto a disagio con i cervi alpini in Abruzzo o con i cervi della Mesola in Calabria ma, sembra, che in questi casi siano tutti molto più rilassati...
Articolo concesso da Diana & Wilde / Edizioni Lucibello, luglio 2023
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