di Matteo Brogi
La caccia come antidoto al Disturbo per deficit di natura
Il contatto con la natura accresce lo spirito di iniziativa e autonomia, l'autostima, la capacità di affrontare i problemi; la sua negazione porta disfunzioni fisiologiche e comportamentali ed è la causa principale di quel grande fraintendimento che è l'ecologismo contemporaneo
Nature deficit disorder, in inglese, Disturbo per deficit di natura, in italiano, è una sindrome teorizzata non da un medico ma da un giornalista. È stato Richard Louv - autore nel 2005 del saggio Last child in the woods: saving our children from nature-deficit disorder, purtroppo introvabile nella sua edizione italiana L'ultimo bambino dei boschi, pubblicata da Rizzoli nel 2006 - a descrivere per la prima volta in maniera compiuta, da sociologo più che da scienziato, gli effetti negativi del distacco che si è venuto a creare tra la gioventù e l'ambiente naturale negli Stati Uniti.
Una situazione che riscontriamo, addirittura enfatizzata, in Europa in generale e in Italia in particolare. Scrive Louv, tra l'altro fondatore del network Children & nature: «Se vogliamo salvare l'ambiente, dobbiamo anche salvare una specie indicatrice in via d'estinzione: il bambino in natura». Oggi la sindrome da deficit di natura viene considerata alla radice di tantissime problematiche - psicologiche e fisiche - che affliggono in particolare bambini e ragazzi delle società opulente.
Una generazione ancora fortunata
La maggior parte di noi è stata introdotta alla caccia dal padre, un nonno, uno zio - più raramente una donna, purtroppo - che ha voluto condividere la propria passione. Un passaggio di consegne concretizzatosi con l'esempio che in me, per esempio, ha stimolato il rispetto del selvatico, il senso del limite, un corretto approccio con le armi e la sicurezza, l'amore per la natura. Nel fare mio questo patrimonio di insegnamenti ho estremizzato certe sensibilità; pratica normale, direi: ciascuno è figlio del suo tempo e mio padre, nato del 1931, poco sapeva delle esigenze di conservazione in un mondo sovraffollato e minacciato dai cambiamenti climatici. I figli devono affrancarsi dai padri e trovare una propria autonoma e inedita via di realizzazione: fa parte del normale processo di crescita.
Ebbene, più ci penso e più realizzo di essere uno degli ultimi fortunati. La mia generazione ha ancora una discreta connessione con la natura. Oggi, come rivela Louv, la tutela della natura è diventata un concetto mentale, astratto, separato "dall'esperienza gioiosa degli spazi aperti"; il sistema educativo prevalente ha diviso il sentimento dall'intelletto e la pratica dalla teoria e sta riempiendo il mondo di persone che ignorano la propria ignoranza. Insomma, tutti parlano di ambiente, in tanti pare lo pongano al vertice dei propri pensieri e del proprio attivismo politico, ma in pochi ne fanno esperienza. I più giovani vivono ormai prevalentemente in città, non frequentano la natura, non hanno la possibilità di visitare un giardino zoologico e limitano il proprio contatto con la vita animale a cani, gatti, piccioni, mosche e zanzare. Interessante, a questo proposito, la lettura del saggio di Spartaco Gippoliti L'ultimo bambino dello zoo. Le mie esperienze tra gli animali del giardino zoologico di Roma che - ispirandosi già nel titolo al best seller di Louv - indaga da una prospettiva originale proprio questa separazione.
Città e distacco dalla natura
Il distacco dalla natura - oltre a produrre una sindrome che ingenera sofferenza - è la causa principale di quel grande fraintendimento che è l'ecologismo contemporaneo. E, per inciso, del rifiuto dell'utilizzo delle risorse animali per l'alimentazione, dell'ambientalismo più ottuso, della condanna senza sconti dell'attività venatoria. Sancisce l'assoluta distanza tra il moderno cittadino del mondo, generalmente inurbato, e la natura vissuta, condiziona il pensiero delle maggioranze e, ahimè, l'approccio ideologico delle giovani generazioni alle politiche ambientali. Scrive Louv (a proposito, il libro è introvabile in libreria ma si può prendere in prestito in una delle numerose biblioteche di cui è ancora, per fortuna, ricca la nostra Nazione) che la nostra esperienza in natura sta raggiungendo «le dimensioni di un monitor a schermo piatto», paragonabile a tour vissuti «da dietro il finestrino»: una serie di avventure asettiche, sterilizzate dal rischio fisico che, anch'esso, è connesso allo sporcarsi le mani e al fare esperienza.
L'esperienza nella natura, secondo Louv, accresce lo spirito di iniziativa e autonomia che poi i ragazzi trasferiscono nella vita a casa e a scuola, la loro autostima, la capacità di affrontare problemi e dare loro delle soluzioni, la connessione con le fonti di cibo; la sua negazione segna la fine degli assoluti biologici, una nuova e ambivalente relazione tra gli esseri umani e gli altri animali, la compressione forzosa della spiritualità. Scrive a questo proposito Paul Gorman, fondatore e direttore della National religious partnership for the envirnonment, «La distanza che mettiamo tra i nostri figli e il creato è la distanza che mettiamo tra loro e il Creatore».
Tutto questo allontana da un'etica biologica «che si pone più pragmaticamente l'obiettivo - misurabile - di non compromettere l'esistenza delle diverse forme di vita - la biodiversità - con cui condividiamo il mondo» e porta «all'allontanamento dalla realtà biologica della nostra stessa specie», scrive Gippoliti, quindi a uno straniamento poi responsabile di tutti i sintomi del Disturbo per deficit di natura.
La sociologa Rosa Tiziana Bruno delinea le conseguenze del deficit, che così riassume nel suo Educare al pensiero ecologico: «Trascorrere costantemente poco tempo all'aria aperta e a contatto con la natura causa una serie di disfunzioni fisiologiche e comportamentali. Possono verificarsi una riduzione dell'uso dei sensi (l'olfatto, il tatto), difficoltà attentive e un aumento del rischio di disordini fisici e mentali (depressione, ADHD, obesità). Questo accade perché la separazione dalla natura mortifica un bisogno primario sensoriale e psicosomatico. [...] Alcuni fenomeni comuni come la stanchezza cronica, l'irrequietezza e l'insonnia sono, almeno in parte, riconducibili alla mancanza di contatto con gli elementi naturali».
La caccia è un privilegio
Essere cacciatori è un privilegio e la scelta di campo di noi cacciatori si può configurare come una vera e propria missione; sta a noi coltivare il senso del limite, curare la biodiversità, cacciare responsabilmente e poi essere seduttivi, far capire che la natura è lo strumento del nostro benessere. Portando in giro la nostra migliore versione, facciamo il bene della caccia e di tutti coloro che ci possono prendere a modello.
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