Franco Perco si è speso per tutta la vita a sostenere un'idea di caccia compatibile con le necessità della fauna selvatica e le differenti sensibilità dell'opinione pubblica. Questa immagine è un tributo al suo lavoro: su Cacciare a Palla ha tenuto per anni una rubrica dal titolo
Franco Perco si è speso per tutta la vita a sostenere un'idea di caccia compatibile con le necessità della fauna selvatica e le differenti sensibilità dell'opinione pubblica. Questa immagine è un tributo al suo lavoro: su Cacciare a Palla ha tenuto per anni una rubrica dal titolo "Visto dall'altana"... - © Matteo Brogi
Pubblicato il in Caccia responsabile
di Matteo Brogi

L'essenza della caccia secondo Franco Perco

Che cos'è la caccia, cosa dovrebbe essere? In questo testo inedito, Franco Perco fornisce una definizione della pratica venatoria guardando al presente e al futuro. Nelle sue parole, pubblicate nel primo anniversario della scomparsa, troviamo l'ispirazione per ripensare il nostro modo di essere e di andare a caccia

Una delle ultime volte che ci siamo confrontati, Franco Perco mi inviò questo articolo che, letto a posteriori, può quasi essere considerato un testamento spirituale. Rimasto per oltre un anno in un cassetto e nei miei pensieri, ho deciso di pubblicarlo - con l'autorizzazione di Gioietta e dei figli Luca, Giulia e Silvia, che ringrazio di cuore - in occasione del primo anniversario della sua morte.
La guida di Franco ha significato tanto per la nostra comunità. Le parole che seguono potranno illuminare anche in futuro il nostro cammino di cacciatori responsabili in un momento di grandi trasformazioni.
Buona lettura.

Cos'è la caccia? Come possiamo definirla? Qui ci vogliono le parole, parole idonee e chiare, per capirne l'essenza. Certamente, nessuno può dubitare del fascino intrinseco della parola, vista la nostra natura di Homo sapiens. Sono carezze e incoraggiamenti ma anche armi. Le parole possono lenire i dolori, dare conforto e voglia di vivere ma anche ferire, discriminare, allontanare. Se basta.

Le definizioni, insiemi strutturati di parole, sono dunque importanti e non sono lussi. E questo vale soprattutto nei casi delicati, nei quali quel significato o meglio quella suggestione offerta dalle parole pronunciate può indurre a determinate azioni o anche solamente a riflessioni pericolose. Quando si parla di caccia questo pericolo è sempre imminente sia che se ne tessano le lodi sia che la si condanni. Una definizione rischiosa è sempre presente, in duplice senso. Lodi acritiche e condanne semplicistiche sono sull'uscio, pronte a non permettere una riflessione. E questo è un grande problema.

Quattro critiche contro la caccia

La caccia suscita emozioni, il classico pro e contro, e parlarne non è mai scevro da azzardi. La correttezza dunque si impone. Questa non è mai disgiunta dalla prudenza, specie perché i contesti sociali nei quali si opera sono diversi. Attenzione, dunque, a esprimersi con un linguaggio corretto e anche aderente - si badi bene - al contesto. Non è la stessa cosa usare anche un solo termine o un aggettivo, in apparenza neutro, in un'assemblea o in una riunione, venatoria o meno. Ritengo allora che sia di enorme importanza far uso di una definizione della caccia non elogiativa e neppure diminuente o, peggio, spregiativa, magari in modo furbesco. Una definizione solo laica, come quella proporrò.

La voce di Franco Perco sarebbe ancora utile in una fase in cui l'attività venatoria deve completare la sua trasformazione, per ricordarci sempre, con la sua intransigente giovialità, il lavoro che dobbiamo fare perché il cacciatore diventi davvero gestore e conservatore
La voce di Franco Perco sarebbe ancora utile in una fase in cui l'attività venatoria deve completare la sua trasformazione, per ricordarci sempre, con la sua intransigente giovialità, il lavoro che dobbiamo fare perché il cacciatore diventi davvero gestore e conservatore - © Matteo Brogi

Purtroppo, la caccia viene inserita, spesso ad arte, in alcune fattispecie che dimostrano una certa faciloneria se non, come vedremo, un'evidente malizia. Proviamo allora a esaminare le etichette, così diffuse sui media. Ci accorgeremo che non sono per nulla neutrali ma tendono a darne un'idea precisa non di rado meschina se non ridicola e/o sorpassata.

Veniamo dunque alle definizioni che potremmo chiamare "furbesche". Sono essenzialmente quattro. La caccia sarebbe:

  1. un hobby;
  2. uno sport;
  3. uccidere per divertimento;
  4. il piacere di uccidere.

La caccia non è un hobby

La prima definizione, diffusa parecchio anche fra i cosiddetti benpensanti, è appunto questa: «La caccia è un hobby». Una definizione neutra, o almeno così pare.

Ora, un hobby è un'attività diversa dal lavoro, fatta anche con passione e persino costosa, nella quale ci si impegna. Se ci fermassimo a queste idee, senza analizzarne l'essenza e le conseguenze, potremmo anche convenire. Tuttavia, la caccia possiede profonde differenze che la allontanano dal cosiddetto hobby, il quale, poi, nel linguaggio comune, è un qualcosa di un po' meno serio di tante altre attività. Ci si potrebbe anche avvicinare, per semplice desiderio di conoscere ma pur sempre con un certo distacco.

È un affare privato, dunque, pur con qualche eccezione. Non mette in gioco questioni molto rilevanti. Non ci emoziona, non lo si contesta. Non ci si oppone a un hobby: «Fatti suoi...» si pensa e anche lo si dice. E a chi poi non piace: «Proprio un bel modo di perdere tempo! Come se non ci fossero cose più importanti...». Infatti, a un hobby si può persino rinunciare, a fronte di attività veramente di peso. Insomma, la caccia sarebbe una sorta di passatempo.

Non ritengo invece che si possa considerarla tale, in quanto la caccia:

  • procura cibo;
  • prevede autorizzazioni e abilitazioni;
  • è regolata da leggi dello Stato (leggi nazionali del 1923, 1939, 1967, 1977, 1992) e da leggi regionali;
  • esige tasse;
  • possiede limitazioni intrinseche di tempi e luoghi;
  • richiede un'organizzazione particolare;
  • influisce in modi anche molto determinanti sull'ecosistema.

In particolare, alcune forme di caccia come la selezione e quella alle specie stanziali (quest'ultima in parte) prevedono, anche se non sempre:

  • interventi ambientali;
  • censimenti;
  • piani di abbattimento;
  • verifiche;
  • eventuale messa sul mercato della selvaggina cacciata;
  • statistiche (anche per le specie migratrici) e loro pubblicazione a cura dell'Istituto, Regioni o Province Autonome, che appunto le governano e le controllano.

Con tutte queste caratteristiche la caccia non può essere un hobby e deve essere inquadrata nella gestione (faunistica) venatoria. Ma voglio essere più preciso, per capirci meglio. La caccia di per sé è solo il suo esercizio pratico, senza altre attività, le quali invece vanno a costituire la gestione. Uscire con il cane e ovviamente anche con il fucile è caccia. Ma non è gestione. Inoltre, un hobby è non di rado innocuo e/o di secondaria importanza nel contesto sociale. Si tratta di un atto individuale o al massimo di una sorta di organizzazione, di un club, che raduna gli hobbisti, per definizione innocui. E ai quali poi si potrebbe opporre un rifiuto qualora arrecassero danno alla società e/o all'ecosistema. Caso raro, si dirà. Ed è vero perché sugli hobby si è alquanto laici, espressione dell'interesse personale come sono.

La caccia non è uno sport

Per lo sport possiamo ripetere quanto già detto per l'hobby. La caccia, la gestione faunistico-venatoria, produce cibo, roba da mangiare. È complessa ed è regolata da leggi, impatta sull'ecosistema eccetera. Nulla di tanto nuovo. Tra l'altro, se si parla di gestione faunistica in senso venatorio, è implicito che non si tratta di sport.

Sport viene dal francese deport (diporto in italiano) nel senso di divertimento, fare qualcosa di diverso per potenziare le proprie capacità fisiche e psichiche. Tutto ciò sia a livello individuale, nulla di tanto differente dallo star bene, sia in senso sociale che collettivo. In tale ultimo caso, lo sport ricade però nell'agonismo e cioè nel confrontare la propria bravura con quella degli altri.
Vi sono tuttavia alcuni, pur deboli, punti di contatto con la caccia. Uno di questi è il tentativo di superare i (propri) limiti. Ma le differenze sono profonde anche perché la soluzione finale, desiderata ma non sempre realizzata, è far preda. In un certo modo, con certe regole, seguendo un preciso codice. Ecco il concetto, pur vago, di sportività.

Franco Perco è stato un conservazionista vero, amante della natura e della caccia
Franco Perco è stato un conservazionista vero, amante della natura e della caccia - © Matteo Brogi

Una sorta di spirito sportivo potrebbe allora rimanere, come lontana parentela, ma starebbe a indicare un'eleganza di comportamento, priva di gara. La quale eleganza potrebbe persino considerare la possibilità di lasciare una via di fuga al selvatico. Fattispecie non comune ma non inesistente. Nello sport, invece, quando non si è soli si gareggia per vincere. La caccia, nella gestione faunistico - venatoria non è così accanita nei confronti dei colleghi, sempre che vi siano.

La caccia è uccidere per divertimento?

Questo si sente dire. Spesso. E come estensione del concetto: i cacciatori si divertono a uccidere. Se questo fosse vero, costoro non escogiterebbero tecniche e usanze così impegnative e difficili, per non parlare dello sforzo fisico. I mattatoi e l'acquisto di un pollastro sarebbero soluzioni più facili e gradevoli. Tranne che per il pollastro e gli agnellini, si intende. Ortega Y Gasset dice, del resto: «Non caccio per uccidere ma uccido dopo aver cacciato..

Non intendo però entrare nel discorso della caccia fatta bene e delle sue regole. L'assunto che intendo criticare sta nelle cose non tanto dette quanto fatte intuire. È evidente a chiunque che colui il quale provi piacere a uccidere, un domani o anche subito potrebbe essere pericoloso per la comunità. La sua pulsione principale è, infatti, quella. E nessuna remora morale vieterebbe che questo tale personaggio si possa indirizzare verso i suoi vicini. Che un cacciatore sia, in quanto tale, crudele e senza cuore però nessuno è stato in grado di dimostrarlo. Proprio perché non è vero. Bifolco e facilone anche sì e purtroppo non sono eccezioni.

Certo, il rapporto che ha il cacciatore, diciamo medio, con la natura è ben diverso da quello che ha un semplice turista o un ambientalista, diciamo anch'esso medio. Questo cacciatore, che forse sto per idealizzare troppo, paga però un prezzo per questa conquista. O dovrebbe farlo. Cioè la restituzione. Non si tratta di un lusso bensì di un obbligo. Morale se si vuole: più ambiente, più dati, conoscenza, controllo e pianificazione. Ed è per questo che non si dovrebbe più tollerare chi vada a caccia senza fare altro, semplicemente, né prima e neppure dopo, pur seguendo tutte le regole necessarie. Per una caccia ben gestita la gestione non è rinunciabile. E ciò dovrebbe spronare il mondo venatorio nazionale nella direzione di una nuova consapevolezza.

Un particolare esame merita ancora la parola divertimento. Una sua definizione corrente è: ciò che serve a sollevare l'animo dalle fatiche quotidiane (Treccani). A mio avviso, nel caso in questione, è palesemente inadatta. Si ricerca il divertimento, se ci va e comunque, a prescindere dalle preoccupazioni: per noia, per scarsi interessi, per inebriarsi sempre di più. Divertimento viene dal latino de-vertere (volgere altrove), cambiare direzione. Fare una cosa diversa: giocare, avere un passatempo. Ora è chiaro a tutti che andare a caccia non è una scelta che si fa dall'oggi al domani. Spesso c'è a monte una tradizione famigliare, un apprendistato, una maturazione di capacità, conoscenze e sensibilità. Nei confronti della natura e questa non è una battuta.

Si tratta di un percorso formativo importante che ha poi costi e impegni di tipo diverso. Certo, la caccia è piacevole ma solo dopo un iter particolare. Non è dunque un riempitivo e può impegnare molti aspetti della vita di un individuo. Talvolta in modi così pressanti da lasciare poco spazio al resto.

Un ulteriore problema interpretativo è provocato dal termine uccidere. Uccidere vien dal latino ob (contro) e caedere (tagliare). Si tratta di un termine che non dovrebbe essere usato per gli animali selvatici soprattutto per la sua valenza molto ampia. L'uccisione riguarda in genere l'uomo e quindi testimonierebbe una vicinanza specifica, una violenza che non può che tradursi in malvagità e cattiveria. Il termine abbattimento, invece, esprime un quid, un'essenza di diversità, pur di una certa importanza. Infatti, abbattimento (dal tardo latino) significa letteralmente atterramento, buttare giù e far stramazzare al suolo. Il termine abbattere è tuttavia di un certo peso. Questo è vero: l'abbattimento è qualcosa di rilevante e cospicuo, e sicuramente non banale o normale, a prescindere dall'entità fisica dell'abbattuto. Ma esprime anche una qualche estraneità, una differenza di fondo. So che non piacerà agli animalisti questo concetto. Ma pazienza.

Nel termine uccidere si percepisce un senso di identità (di specie?) o quasi, una grande prossimità, una sorta di identificazione. Nell'abbattere prevale, al contrario, un senso di importanza ma anche di lontananza: si abbatte un albero e non un cristiano. Insomma, si uccide la suocera e non la si abbatte, se mi è lecito scherzare, almeno sulle parole. Un piano di abbattimento riguarderà gli animali o altro e mai gli esseri umani.

In conclusione, sia il termine uccidere (= crudeltà) sia divertimento (= gioco) sono non solo inadatti ma, anche, del tutto spregiativi.

La caccia è piacere di uccidere?

Questa definizione è abbastanza vicina alla precedente: uccidere per divertimento. Senza ripetere il ragionamento già fatto per il termine uccidere, vi è una sostanziale differenza fra divertimento e piacere. Il divertimento suggerisce una certa superficialità. È fare altro, svagarsi. Nel caso, il tale non avrebbe nulla di più accattivante da fare e, senza curarsi delle conseguenze, compie uno o più atti di tipo venatorio. Al limite, si potrebbe considerarlo (se fossimo animalisti) sciocco, incauto e sbadato. E si suppone, se solo ci avesse pensato, si sarebbe comportato diversamente. La gravità dell'atto non è tanto nell'azione in sé ma nella circostanza di non averle dato molto peso.

Provare piacere è invece ben diverso. Qui viene alla luce proprio un difetto della personalità di chi compie l'atto. Costui si rivela in tal modo assolutamente spietato e abbietto, in quanto gode delle sofferenze altrui. Troncare una vita e goderne? È il Male assoluto! E questo piace terribilmente agli animalisti. Intendo l'avere identificato alcuni cattivi impresentabili, per far risaltare la propria bontà. Quindi, il consiglio che mi permetto di offrire ai cacciatori è quello di soffrire. Prima, durante e dopo. Ma di farlo anche vedere. Qualche lacrima non guasterà, credetemi. Però senza strafare: cum juico.

Definizioni laiche

Una definizione neutrale corrente e non del tutto malvagia è per esempio la seguente: la caccia è la ricerca, l'uccisione o la cattura di animali selvatici. Tuttavia, i termini non sono in stretta connessione logica.
La ricerca da sola non basta. Posso ricercare un animale selvatico semplicemente per scattare una foto. Tra l'altro, per cacciare si sta anche fermi. E le cacce d'appostamento non sono invenzioni. Inoltre, l'uccisione e anche la cattura possono avvenire per necessità molto diverse, che vanno dal controllo alla ricerca. È vero che sia il controllo sia la ricerca sono gli effetti dell'azione e l'atto invece può essere del tutto venatorio. Ma la discrasia fra effetti e propositi, cioè lo stare meglio, ha pure una sua realtà.

Graham Hall suggerisce «[Hunting is] the pleasant occupation of pursuing wild animals, engaging with chase». E cioè «[La caccia è] la piacevole occupazione di star dietro agli animali selvatici, essendo coinvolti nella loro caccia». Definizione che però è quasi autoreferenziale - la caccia è dare la caccia - mentre, a mio avviso, migliore è la seguente, di mia fattura: «La caccia è l'impossessamento avventuroso di animali selvatici o inselvatichiti».

Cerco di spiegare. Si caccia anche catturando un selvatico. Cosa avvenga dopo dipende dal contesto sociale e dalla tradizione. Oggi, per esempio, la cattura è vietata se non per finalità di ricerca ma in un recente passato non era così. L'avventurosità è un elemento al quale spesso non si bada. Eppure, è determinante perché dipende da uno sforzo congruo a vincere le abilità del selvatico. Un'abilità verso un'altra. Il vantaggio starà pur sempre dalla parte del cacciatore. Tuttavia, in certi casi esso può portare anche alla rinuncia del proseguire nell'azione. La supremazia non deve essere totale e allora un margine, una possibilità, diciamo di fuga o di sospettosità, atte a evitare l'insidia, deve essere sempre presente.

Il cacciatore è comunque costretto a servirsi di tecniche e di trucchi che sono poi tanto più complessi quanto lo sono le capacità dell'animale. Ma non basta. Mezzi e accorgimenti sono limitati dalla legge e dalle usanze. Non si va a caccia con le bombe a mano, non si incendia un incolto, non si usano trappole o lacci. Oggi. In passato altre erano le esigenze sposate alla caccia: difesa da danni, fame. E allora le diavolerie erano tantissime. Ridurre il vantaggio del cacciatore è dunque importante, o meglio integrarlo con le capacità della preda, appunto, possibile ma mai certa. Se il vantaggio è totale si tratta di fucilazione, non di caccia. Sparare a un lepre nel suo covo, in un campo arato, o a un fagiano appollaiato su di un albero è appunto un'azione molto più che indecente: non è caccia e basta.

Questo è l'imperativo di una caccia moderna. Premiare anche altre necessità della caccia. Del futuro ma anche di oggi: la consapevolezza, la pianificazione, il senso del limite. E persino, perché no, lo stile!

In tedesco si parla di Waidgerechtigkeit cioè di appropriato in senso venatorio. E ciò dipende dalle circostanze, dal selvatico e anche dalle tradizioni. Il succo dell'avventura è questo. E se ciascuno di noi riflette sui primi passi di noi bimbetti, neocacciatori con il flobert Diana (non so se esiste ancora) a caccia di lucertole oppure - orrore - di rondini, non può che darmi ragione. Avventura insomma. Un codice di comportamento per il cacciatore e non per il bruciasiepi.

Conclusioni

Sono sempre più convinto che sarà solo il senso dell'avventura che salverà - parola forte me ne rendo conto - l'attività venatoria. Questa necessità non è lasciata al caso, si badi bene. Non è un "vagare", come dice improvvidamente la legge 157, alla ricerca di non si sa che cosa.

L'avventura è un progetto della cui conclusione non siamo perfettamente sicuri. È una probabilità. Anche elevata, se ci sappiamo fare. Ma resta un qualcosa che ha sempre dei margini di insicurezza. Sta a noi vedere come si realizza e le possibilità negative ci saranno sempre. E questo è un bene, anzi è il fondamento di tutto.

Il fagiano pronta caccia non è avventura. È sparo. Come pure le cacce in recinto, ovviamente di dimensioni ridotte, e a seconda della specie. Potremmo chiederci ancora se i ripopolamenti e le tanto osannate ZRC (Zone di ripopolamento e cattura) sfuggano a queste censure. In parte sicuramente no. Purtroppo. Sono la prova di una diffusa cialtroneria nonché dell'incapacità di gestire e di limitarsi. Se la selvaggina è poca, non si raschia il fondo del barile, dovrebbe essere ovvio. Ci si ferma. Crearsi avventura perché si è incauti e irresponsabili è un'offesa alla corretta pratica e scusanti non ci possono essere.

A questo punto potrei concludere suggerendo che previsioni accurate e senso del limite non sono contrari all'avventura. Ne sono anzi i puntelli. Per una caccia del futuro e ovviamente anche di oggi.

Franco Perco

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