di Matteo Brogi
Conservazione, benessere animale e caccia parlano una lingua comune
Tutti parlano di questione ecologica ma nessuno sa cosa sia l'ecologia. È partendo da questo principio che Spartaco Gippoliti presta la sua voce per raccomandare un più stretto contatto tra l'uomo - specialmente i bambini - e la natura. Una voce controvento che difende anche la caccia dai suoi detrattori
Ho conosciuto Spartaco Gippoliti grazie a Facebook, dove condivide la sua conoscenza su temi molto importanti: biologia, conservazione, biodiversità. Le sue osservazioni sono sempre precise, puntuali, documentate, sostenute da prove scientifiche e ricche di quella caratteristica che sembra mancare ai nostri giorni: il buonsenso. Rappresenta una voce controvento - o controcorrente, se vogliamo riprendere la forse abusata ma molto attuale immagine del mainstream - che non ha timore a esprimere pubblicamente opinioni scomode su temi importanti anche per noi cacciatori. E a difendere un'attività venatoria intesa in senso moderno, responsabile, sostenibile.
Ho approfondito la sua conoscenza grazie al saggio pubblicato nel 2018, e ancora disponibile, L'ultimo bambino dello zoo. Le mie esperienze tra gli animali del Giardino Zoologico di Roma, in cui parte dalla propria esperienza di bambino che ha speso infanzia e adolescenza in uno zoo per spaziare su varie tematiche controverse, dall'importanza dei giardini zoologici al benessere animale e alla conservazione della biodiversità. Lo fa in maniera originale, controcorrente appunto, fornendo spunti di riflessione che mi hanno indotto al confronto che ha portato a questa intervista. Partendo dagli zoo, certo, ma allargando l'analisi.
Spartaco, il tuo libro è controverso perché parte dalla difesa dei giardini zoologici - malvisti dall'opinione pubblica - ma affronta in molti modi differenti il delicato tema tra l'uomo e l'animale. Il bambino dello zoo è cresciuto e ora ha opinioni molto precise che contrastano con l'attuale visione di molti...
Nel libro sento il dovere di raccontare un'esperienza particolare, un fatto biografico indispensabile per capire perché sono uno studioso che non si accontenta delle ricette magiche ma cerca di capire cosa c'è dietro: l'esperienza diretta con gli animali, specie da giovane, è fondamentale. Un aspetto che stiamo perdendo perché la natura è sempre più lontana dai giovani. Questo è il messaggio che voglio portare avanti: il contatto con la natura è fondamentale quando ci stiamo formando, nei primi anni della nostra vita.
Mi ha colpito quando parli della possibilità di vedere, nello zoo, gli animali in tutte le loro manifestazioni a differenza di quanto mostrano i documentari, che devono essere accattivanti e finiscono per mostrare situazioni e comportamenti che solo parzialmente corrispondono alla realtà.
Certo, questa è la differenza sostanziale tra l'esperienza diretta e quella mediata da qualcuno che ha esigenze particolari, per esempio di spettacolarizzazione. Anche un animale che dorme otto ore di seguito - esperienza che puoi fare in un giardino zoologico - è interessante, perché a differenza di quel che pensa l'iperattiva società moderna, la natura ha i suoi tempi e i suoi ritmi di attività.
Nel tuo saggio scrivi che i giardini zoologici sono ritenuti inutili perché tale è ritenuta la cultura naturalistica. Eppure, oggi si credono tutti naturalisti per il solo fatto di avere a cuore le specie carismatiche o di non mangiare carne.
Continuando a lavorare sulla questione ne ho sempre più la conferma. Il giardino zoologico moderno nasce dalla Rivoluzione Francese e l'idea illuministica, legalitaria, che quello che fino ad allora era stato un privilegio per pochi doveva essere una possibilità per innalzare la cultura popolare. Oggi, quelli che considerano gli zoo inutili in ultima analisi considerano inutile la condivisione della conoscenza. In Italia non si vuol far crescere la cultura della gente ma gli si dice che si deve fidare dei soliti noti che imperversano sui giornali, su Rai 3, La7 e dei cosiddetti esperti (Tozzi, Brambilla, Coccia): quella deve essere la fonte del sapere.
Lo stigma per il maltrattamento degli animali ha fatto sì che gli zoo rappresentassero una macchia sulla coscienza dell'uomo moderno e ne ha di fatto determinato la condanna.
I giardini zoologici ci sono: per fortuna c'è una legislazione europea che l'Italia ha recepito. Ma la sensibilità italiana nei loro confronti è molto severa. Ma come, gli zoo sono utili? Questo si chiede con meraviglia un microcosmo di persone che non sa nulla ma crede di essere l'avanguardia di una civiltà elevata. Sì, gli zoo ci sono ma sono lontani dalle città e questo ne rende problematica la fruizione da parte dei bambini, che hanno contatti quasi esclusivamente con cani, gatti, piccioni. Questo è il primo problema.
Un altro problema è che l'Italia non è stata in grado storicamente di realizzare giardini zoologici urbani degni di questo nome, con pochissime eccezioni. Ma se non siamo stati capaci di fare un buon giardino zoologico non è colpa dell'istituzione giardino zoologico, piuttosto di chi non è riuscito a produrre un modello virtuoso. Molti di coloro che condannano gli zoo sono in malafede, ma tanti hanno conosciuto strutture antiquate, spesso impropriamente definiti "giardini zoologici". Nessuno ha spiegato agli italiani cosa siano davvero i giardini zoologici anche se oggi vi sono ottime strutture extra-urbane.
Nel rapporto con la fauna selvatica, oggi prevale l'empatia per il singolo esemplare, reiterando il grande equivoco tra conservazione, tutela delle specie e una visione che si ferma al particolare. Mentre tu scrivi che «È quindi ovvio che, come anticipato da Oscar de Beaux, l'etica biologica può avere come obiettivo il rispetto delle specie viventi, non di ogni singolo individuo». Sembra che si sia perso il senso della parola ecosistema. Come dovrebbe evolvere il rapporto tra uomo e ambiente?
Ho vissuto un'esperienza privilegiata perché al giardino zoologico, oltre agli animali, ho conosciuto le persone che vi ruotavano intorno a tutti i livelli: guardiani, naturalisti, biologi, veterinari, zoologi, chi ha iniziato a fare conservazione. La mia idea della conservazione si è formata in via privilegiata, ho scoperto presto l'esistenza dell'IUCN, ho potuto consultare tutti i documenti della conservazione. Ebbene, fino alla Convenzione sulla diversità biologica di Rio de Janeiro del 1992 si è enfatizzato il principio dello sviluppo sostenibile. A me era quindi molto ben chiaro cosa significa rispetto per gli animali: evitare il maltrattamento, rispettarne per quanto possibile le necessità fisiologiche ed etologiche che cambiano da specie a specie. Purtroppo, però, già a fine anni '80 si amplia la divisione tra chi si occupa di conservazione - partendo dall'utilizzo sostenibile delle risorse naturali da cui l'essere umano dipende, senza compromettere la sopravvivenza delle specie e degli ecosistemi da cui le risorse provengono - e chi invece punta alla tutela di ogni singolo individuo. Una visione che non permette di toccare niente è in contrasto con una visione di sviluppo sostenibile: in molti contesti oggi si fa fatica a distinguere tra rappresentanti del mondo scientifico e del mondo animalista, se non per l'utilizzo appropriato di parole tecniche. La gente si inchina. Ma perché questa cosa vale solo per l'Italia? All'estero si gestiscono gli orsi e persino i lupi, mentre noi guardiamo all'esperienza estera - che di solito esaltiamo - con un senso di superiorità che forse ci viene da un benessere economico arrivato troppo in fretta.
Parlare di uso delle risorse, pur sostenibile, è difficile, tutte le specie faunistiche stanno diventando totem della nostra società...
Chi parla di uso sostenibile è considerata una persona gretta. Siamo il paese dell'idealismo crociano e gentiliano e non è un caso che Gentile con la sua riforma del 1923 abbia tolto lo studio delle scienze naturali dagli ordinamenti scolastici di quasi tutte le scuole del Regno. Non sappiamo che cosa sia l'ecologia. C'è chi parla di equilibri come se vi fosse un'entità superiore che può riequilibrare ciò che l'uomo ha manomesso. L'uomo è cattivo, il lupo è buono a prescindere. Qui ci allacciamo al discorso post-modernista, al tema della cancel culture che va molto di moda oggi. Tutti parlano di questione ecologica ma, ripeto, nessuno sa cosa sia l'ecologia.
Nel tuo testo ti spingi oltre: «È perciò perfettamente logico che il surplus, cioè l'incremento annuale della popolazione, possa essere a disposizione delle popolazioni locali per avere carne o altro ritorno economico attraverso una utilizzazione razionale e lungimirante». Queste poche righe vanno addirittura oltre la narrazione della comunicazione del mondo venatorio. Noi poniamo l'accento sull'aspetto gestionale, tu giustifichi l'uso legittimo degli interessi del capitale...
Devo specificare che sono cresciuto più a contatto dei leoni con tutto il loro carisma che del lupo, mi sono occupato molto di conservazione in Africa. Questo è un discorso generale circa i vari approcci che esistono in Africa e i risultati che producono. Non sono un fan del modello sudafricano, molto imprenditoriale, ma il Sudafrica è pieno di animali che vengono utilizzati anche per la caccia. Quello che preferisco è l'approccio che parte dal basso, come in Tanzania; l'esatto contrario di quello che piace agli Occidentali: un approccio che viene dall'alto, con leggi, finanziamenti, imposizioni. In Kenia, forse non è di dominio pubblico, i governi sono sotto ricatto, i finanziamenti vengono concessi a patto che la caccia sia bandita. Si vogliono salvare tutti gli elefanti dimenticando che non è un animale che non si fa notare: se si avvicina a un villaggio distrugge campi, capanne, ammazza chi cerca di difendere le proprie cose. In certi paesi africani indipendenti c'è chi dice che i governi hanno più interesse per gli elefanti che per le persone; non per convinzione, magari, ma perché sotto scacco delle associazioni ambientaliste. Questa è la situazione che ho visto in Africa, da qui la mia solidarietà con le comunità locali e i cacciatori moderni, meglio se illuminati.
Insomma, l'ambientalismo diventa una forma di colonialismo del XXI secolo...
Certo e io sono forse l'unico italiano che ha scritto di decolonizzazione della conservazione. Siamo più colonialisti oggi di quando c'erano le colonie, perché una cosa del genere non sarebbe mai successa sotto un governo coloniale.
Questo ragionamento si può estendere alla caccia in Europa e in Italia in particolare?
È importante avere una visione. Se ce l'hai, si può cercare di concretizzarla, ma se non sai qual è il tuo obiettivo o è troppo generico ("conserviamo la caccia") i risultati saranno poveri, frammentari, in contraddizione tra di loro. Anche all'interno del Comitato scientifico di Fondazione Una dico che è importante avere una visione da trasmettere, oltreché delle nozioni, e che bisogna confrontarsi con gli altri senza timore anche per cercare una sintesi più ampia. Il mondo venatorio deve avere una visione. Ci sono temi molto seguiti, altri che restano sottotraccia; per esempio, da zoologo purista e conservazionista, non posso accettare la presenza del silvilago in Italia. Non posso sentire cacciatori che si lamentano della scomparsa dei mufloni nella Penisola (originariamente erano solo in Sardegna, stavano su un'isola, non avevano predatori), non può essere questo il termometro da utilizzare. Se parliamo di caprioli la cosa ha più senso. Persino il nostro cinghiale maremmano ha una importanza conservazionistica che spesso sfugge sia al mondo accademico che a quello venatorio.
Lupo: sei favorevole a qualche forma di gestione?
Anni fa ebbi lo avuto la fortuna di essere cooptato da Franco Perco in un piccolo gruppo di pensatori su questioni faunistiche. Mi chiese cosa pensassi della sua idea di zonazione e gli risposi: «Franco, non riesco a trovare altra soluzione». Non riesco a condividere la tranquillità di chi sostiene che in Italia c'è tanto spazio per i lupi. Non ne faccio un discorso di numeri - non sono neanche particolarmente interessato - ma da conservazionista mi interessa prima di tutto sapere quanti sono quelli puri e quanti gli ibridi, dove sono, quale ruolo svolgono da un punto di vista ecologico o in rapporto alle attività e alla sicurezza umane. A me pare ovvio che debba essere gestito o non gestito differentemente in base al luogo. Non è una specie in pericolo (una specie in pericolo come il Lupo del Simien conta un decimo della popolazione del lupo solo in Italia) per cui, ribadendo il principio indispensabile del coinvolgimento delle comunità, si può uscire dal mito del lupo ed essere tutti più rilassati: avere un dialogo reale sulla base delle conoscenze - plurali, non della conoscenza del singolo esperto che pretende di spiegare le cose a chi non sa niente. Non puoi imporre la tua conoscenza a un allevatore e a un cacciatore pensando che sia tabula rasa. È necessario un rapporto diverso tra le istituzioni e i cittadini per difendere il lupo dove si ritiene che sia importante difenderlo ma rimuoverlo dalla spiaggia di Vasto dove ha aggredito bambini e ragazzi a scopo predatorio. La rimozione di un lupo che attacca dei bambini non può essere argomento di confronto per mesi. Questo è inaccettabile e la cosa grave è che non sento parole chiare, l'approccio è molto semplicistico, con eccezione di Marco Apollonio e Sandro Lovari.
Le scienze naturali non sono scienze politiche. Tu ci puoi credere o non credere ma il virus segue la sua strada, così come il lupo e l'orso in Trentino. Si ha la sensazione che in certi ambiti ci sia un'equiparazione tra armi e caccia. Il controllo delle specie invasive non ha nulla a che fare con la pace, la guerra, l'aggressività. Viviamo un corto circuito perché non sappiamo cos'è l'ecologia. Se non ne prendiamo atto - se lasciamo che la natura faccia il suo corso - non capiamo che in tutto questo ci vanno di mezzo anche degli esseri umani.
Ti ringrazio del tuo intervento, una voce preziosa che permette di affrontare temi complessi (in Italia) con il necessario supporto scientifico. Oggi è difficile esporsi come hai fatto tu, si rischia sempre il fraintendimento, anche politico...
Tendenzialmente sono una persona piuttosto introversa... da ragazzo preferivo parlare con gli scimpanzé e gli oranghi. Poi mi sono resoconto che se si vuole dare un contributo per cambiare le cose si deve scendere in campo. Alla fine, con gli anni, ho capito che è diventato importantissimo portare avanti certe idee.
BIOGRAFIA
Spartaco Gippoliti si interessa alle tematiche riguardanti l'utilizzazione di programmi "ex situ" per la conservazione della biodiversità animale. Dal 1984 ha collaborato alla stesura di studbooks (libri genealogici) per specie minacciate e al censimento dei primati in cattività in Europa (1994) e ha svolto attività curatoriali e scientifiche nei maggiori giardini zoologici italiani. Si interessa alla sistematica, ecologia e conservazione dei primati, con particolare riguardo a quelli della Regione Afrotropicale; dal 1998 è membro dell'IUCN Primate Specialist Group. Ha condotto indagini sul campo in Etiopia, Guinea-Bissau e Tanzania.
Dal 1999 è impegnato nell'identificazione delle priorità di conservazione dei mammiferi della Regione Mediterranea e alla problematica delle "paleointroduzioni". Inoltre, segue con particolare attenzione le conseguenze dello sviluppo delle conoscenze tassonomiche e filogeografiche sui mammiferi italiani nel campo della conservazione.
Ha tenuto lezioni e seminari nell'ambito dei corsi di laurea di Ecologia applicata e Antropologia presso diverse Università italiane. Si occupa di storia dei giardini zoologici italiani e di quella del Giardino zoologico di Roma in particolare. È autore di circa 200 pubblicazioni scientifiche ed è membro del Comitato scientifico di Fondazione Una.
Se sei interessato alla caccia sostenibile e alla conservazione dell'ambiente e della fauna selvatica, segui la pagina Facebook e l'account Instagram di Hunting Log, la rivista del cacciatore responsabile.