di Matteo Brogi
Cncn: un appello per il futuro della caccia
Il Comitato nazionale caccia e natura (Cncn) ha lanciato un appello firmato dal suo presidente, Maurizio Zipponi. Una nuova proposta per definire una visione della caccia più moderna
L'appello invita a "un deciso cambio di passo" per far fronte ai continui attacchi cui è sottoposta la caccia, "perché continuare come fatto fino ad oggi, con grande impegno ma con mezzi e risorse limitate, non è più una strada percorribile". Per avviare una nuova stagione della caccia, continua Zipponi, è necessario "riunire le forze a disposizione chiamando a raccolta tutti gli attori del nostro comparto che sono collegati a vario titolo al Cncn: dai produttori di armi e munizioni, alle associazioni venatorie, alle associazioni come Assoarmieri fino a realtà come Fondazione Una, che si fa portavoce delle istanze di rinnovamento del settore". Il Comitato ha pertanto deciso di avviare un progetto "da realizzare attraverso un piano di comunicazione dal forte impatto mediatico" con quattro obiettivi:
- promuovere la caccia come un'attività sostenibile, imprescindibile per la tutela della biodiversità e degli equilibri della natura;
- restituire al cacciatore il ruolo di paladino del territorio, rispettoso della normativa e attore fondamentale nella tutela della fauna, in particolare delle specie protette;
- "rinvigorire l'orgoglio" di un settore rilevante sia sotto l'aspetto economico sia occupazionale e rafforzare il suo contributo nella creazione di filiere specializzate;
- riallacciare la relazione con le nuove generazioni al fine di valorizzare la tutela dell'ambiente e la conoscenza della caccia.
Il progetto, sempre secondo Zipponi, dovrà essere sostenuto dagli operatori di settore che finanzieranno un piano di comunicazione straordinario; direttamente (le aziende) o mediante un contributo molto contenuto applicato al prezzo di munizioni e dei relativi componenti (i cacciatori). Un sistema già applicato altrove con successo, basti pensare all'esperienza degli Stati Uniti, e che mira allo stesso obiettivo cui tende Hunting Log. Delle parole di Zipponi mi ha molto colpito il "senso di urgenza" e, per questo, gli ho richiesto un'intervista.
Presidente, credo che il senso di urgenza di cui parla nel suo appello non sia percepito da molti. Perché - coraggiosamente - lo mette al centro del suo ragionamento?
Perché abbiamo una grande opportunità, quella relativa all'approccio sostenibile del nostro vivere quotidiano, quindi anche del nostro rapporto con la natura. I primi soggetti protagonisti della sostenibilità sono proprio i cacciatori, il mondo venatorio trasparente, regolare e che contrasta il bracconaggio. La seconda ragione di urgenza è che dobbiamo recuperare almeno 30 anni in cui si è scavata una buca profondissima nella quale sono stati gettati i cacciatori, associandoli a nemici della natura. È indispensabile, per quanto difficile, un significativo recupero sul piano sociale e su quello comunicativo. Questa urgenza ci fa dire che dobbiamo alzare il tiro per far sì che anche l'attività venatoria sia percepita come un anello della lunga catena della sostenibilità.
Non crede che la responsabilità della cattiva fama della caccia sia in parte responsabilità del cacciatore e della peculiare legislazione italiana?
Quando si finisce in un angolo bisogna sempre chiedersi il perché. Se oggi la caccia è sentita come un'attività negativa e nemica dell'ambiente, questo consegna una responsabilità anche al mondo venatorio. Da quando è nata Fondazione Una (organismo che difende un corretto equilibrio tra uomo, natura e animale, di cui è presidente lo stesso Zipponi, ndr) è cambiato l'atteggiamento del mondo venatorio. Rimangono delle frange estremiste che fanno della caccia uno strumento funzionale alle proprie ambizioni ma per il resto vedo che le grandi associazioni venatorie hanno chiaro che bisogna unirsi e riposizionare la figura del cacciatore nell'ambito della comunità, indicandolo come paladino del territorio. E da non confondere con il bracconiere, che per noi è un delinquente. Si tratta di due figure agli antipodi. Quanto alla legge, questa è chiara e siamo per la sua piena attuazione. Semmai va costruito un rapporto positivo con il mondo agricolo perché è evidente che anche il tema dei danni causati dagli ungulati alle coltivazioni presuppone che non ci sia un interesse contrapposto ma comune. Non a caso Coldiretti è nostro partner nei progetti su cui stiamo lavorando. Su questo fronte la legge va bene, va rispettata; dobbiamo trarre insegnamenti dalle esperienze negative e fare sì che l'alleanza tra agricoltori e mondo venatorio porti a difendere anche i loro interessi economici.
In Europa, le Associazioni venatorie e i principali attori (inclusi i produttori) già da tempo hanno imboccato la strada di una comunicazione in cui il rispetto dell'ambiente e la tutela della biodiversità sono centrali. A suo avviso, come mai non è ancora avvenuto in Italia e tra i cacciatori - quando si parla di ambiente - si respira diffidenza?
Il cacciatore ha nel suo dna di essere ambientalista perché se l'ambiente muore, muore anche l'attività venatoria. Rispondo con una visione: noi avremo riposizionato l'attività venatoria, quindi il rapporto tra uomo e animale selvatico, quando sia i giovani sia le donne avranno capito che questa attività è un punto di equilibrio della natura. Dobbiamo lavorare da subito - cosa che facciamo già come Fondazione contattando migliaia di studenti - per eliminare il pregiudizio, invitando a ragionare sull'ambiente e a verificare che l'attività venatoria è un anello di una lunga catena e il cacciatore può essere tutto l'anno presidio di un territorio per lo più abbandonato. Quindi è fondamentale rivolgersi da subito ai giovani e alle donne e invitare i più anziani a passare la memoria alle giovani generazioni. Per memoria intendo la conoscenza del bosco, dei torrenti, delle acque, di come vanno prevenuti i disastri: questi per esempio non sono mai imprevisti ma vengono preceduti da una serie di segnali che solo chi conosce il territorio sa interpretare. Tutta questa attività ricolloca il cacciatore in un ambito in cui non è più nemico della natura ma presidia appunto il territorio.
Questa iniziativa è destinata solo alla stampa di settore oppure anche a quella generalista? Nel caso abbia un'audience più ampia, come pensa di riuscire a comunicare il giusto significato dell'attività venatoria a un mondo spesso indifferente quando non prevenuto?
Innanzitutto ci rivolgiamo alla stampa di settore perché si capisca che, se non si cambia, la caccia in Italia è destinata a scomparire. Si parte dal mondo venatorio e dalla consapevolezza dell'importanza della sfida che abbiamo davanti. È poi evidente che il mio appello e tutte le iniziative di Cncn e Fondazione Una sono rivolte a un'opinione pubblica vasta e si apre al mondo scolastico, culturale, a tutti coloro che, chiusi nelle loro città, vivono la natura in maniera astratta: vogliamo esortarli ad abbandonare la propria scrivania, a contattare un cacciatore, a farsi spiegare come evolvono le stagioni e ad andare a vedere, a toccare, a sentire, a sperimentare cosa si prova quando si esce da una concezione artefatta della natura e la si vive di persona. Ci rivolgiamo a tutte quelle persone che devono capire che l'abbandono della natura in Appennino e nelle Alpi mette a rischio non solo l'attività venatoria ma può procurare disastri ambientali che possono previsti e prevenuti solo da chi sta sul terreno. Per questo insistiamo, quando andiamo nelle scuole, nel passaggio di memoria: non parliamo mai della caccia ma dell'evoluzione dell'uomo da 4.000 anni a oggi e del suo cambio di passo nel suo rapporto con l'animale che deve trovare ogni volta nuovi equilibri. È questa la fase storica che stiamo attraversando. In conclusione, il recupero di un'attività venatoria trasparente è anche un'occasione di economia per il recupero dei borghi e dei luoghi abbandonati. Se si forma una filiera economica tracciabile che parte dal prelievo del capo e arriva fino all'osteria, anche l'attività venatoria genererà economia e lavoro. Un'occasione per recuperare le aree abbandonate per la loro scarsa rilevanza economica, un altro anello che compone la lunga catena della sostenibilità ambientale, sociale ed economica.
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