
di Diana & Wilde
Cani da seguita: la muta per la lepre
Una buona muta è il punto d’arrivo, per niente scontato, del lepraiolo. Il suo lavoro è paragonabile a una sinfonia, dove ogni interprete deve accordarsi al resto dell’orchestra
di Massimo Sassara
La caccia alla lepre con i segugi può essere effettuata con un singolo cane, una coppia oppure un gruppo di cani che non necessariamente si identificano in una muta intesa come massimo livello di spettacolo, non solo venatorio. Una muta di segugi morfologicamente tipici, ordinati sul terreno e venatoriamente validi rappresenta il sogno agognato di ogni segugista. Tutti coloro che hanno praticato o praticano la caccia alla lepre con i cani da seguita sanno quanto sia delicato e difficile avere interpreti dotati di molte e diverse qualità che difficilmente si trovano riunite in uno stesso soggetto.
La muta ideale: quattro bravi specialisti non bastano
È nozione comune identificare arbitrariamente la muta ideale come composta da quattro specialisti: il marcatore, l’accostatore, lo scovatore e l’inseguitore. Una concezione siffatta sulla formazione della muta dimostra una valutazione alquanto superficiale del problema. Prendere quattro soggetti, per quanto di altissimo livello nelle loro specializzazioni e metterli insieme, non dà nessuna garanzia che costituiscano una muta dove, fatte salve le peculiarità di tutti, il risultato finale complessivo deve essere superiore a quello di ogni singolo cane.
La muta non è un coacervo di cani sottomessi a un grande segugio e neppure un insieme casuale di individualisti, seppur di livello. Il lavoro della muta è paragonabile al suono di un’orchestra: ogni componente suona uno strumento e tutti insieme fanno una sinfonia. Se uno dei musicisti, pur bravissimo, suonasse per proprio conto non ci sarebbe armonia. Parimenti, per ottenere questo risultato una muta, la cui composizione minima è di quattro cani, deve essere globalmente omogenea sul lavoro, ma nel rispetto delle peculiarità di ogni interprete. La parola chiave pertanto è omogeneità, sia sul lavoro, difficile da trovare, sia morfologica, cosa invece molto più semplice.
Il senso dell’omogeneità
Per omogeneità sul lavoro intendiamo soggetti che, nel rispetto delle singole attitudini, come per esempio una migliore capacità a inseguire, scovare, accostare e così via, lavorando in modo armonico ottengono un risultato cumulativo dell’azione di caccia superiore a quello di ogni singolo componente. Per questo motivo dovranno essere esclusi cani non sinceri che scagnando a vuoto disturbano, cani gelosi o litigiosi o cani che, per quanto possano essere bravi, hanno la tendenza ad andare fuori mano dimenticandosi dei compagni se non addirittura del canettiere. Ancora dovranno essere esclusi i cani eccessivamente pasturoni che tendono a imballare la muta o i cani che rebuffano in seguita o muti in seguita.
Utilizzando una valutazione ripresa dagli studi sulle dinamiche lavorative nell’uomo possiamo dire che la produttività di un gruppo di lavoro è massima quando in quel gruppo regna armonia, crolla quando in quel gruppo c’è litigiosità. Così nella nostra muta la massima armonia, oltre l’aspetto estetico che sicuramente ne beneficia, significa anche massima resa che nulla ha a che fare col carniere che dipende da altri fattori esterni. Omogeneità significa anche avere cani molto vicini in quanto a età anagrafica o a caratteristiche fisiche. Se durante una seguita prolungata, magari su terreni impervi, avremo una muta composta da alcuni soggetti in età molto avanzata o poco prestanti fisicamente, la seguita sarà sicuramente sfilacciata e perderà molto del suo fascino. È ben diverso, infatti, avere una muta che arriva compatta alle poste rispetto a un cane che ci arriva dopo aver lasciato indietro gli altri compagni di caccia perché anziani o poco prestanti.
L’esperienza di Mario Quadri
La ricerca della passata deve essere omogenea. I cani devono allargare anche di molto, ma senza mai perdere il contatto tra loro, devono avere cioè quello che viene chiamato “il collegamento o spirito di muta”. Tantissimi anni fa, agli albori del mio corso per giudice ENCI, accompagnavo per un assistentato l’allora presidente Sips Mario Quadri. La prova si svolgeva ad Ovindoli in Abruzzo quando il parco non era stato ancora istituito. Un concorrente liberò quattro cani che si aprirono a ventaglio andando anche molto distanti tra loro ma senza scagnare. Guardai il Maestro Quadri in modo un po’ perplesso per quello che sembrava a me un modo non propriamente ortodosso di collegamento con il canettiere. Poco dopo un soggetto si fermò, accertò la presenza della lepre e assieme a movimenti frenetici della coda diede voce. In un attimo gli altri tre, che pure erano lontani, si riunirono e da lì iniziarono a lavorare insieme. Il Maestro Quadri si girò e con un sorriso mi disse: «Così devono lavorare gli italiani!» Quanto descritto rappresenta una bellissima dimostrazione di collegamento o spirito di muta che dir si voglia.
Quando poi una muta è già omogenea nel lavoro, il massimo della spettacolarità è rappresentato dall’omogeneità morfologica: cani della stessa razza, della stessa struttura fisica ma con le differenziazioni proprie del dimorfismo sessuale e con il mantello dello stesso colore, anche se sono accettati colori diversi del manto purché soggetti appartenenti alla stessa razza. Ma come si arriva a questi livelli di omogeneità? Non facilmente, ma ci si può arrivare con un’oculata selezione.
La muta, un punto di arrivo
La muta rappresenta non il punto di partenza di un neofita, ma il suo punto di arrivo dopo però essere passato magari per le esperienze con un singolo o con una coppia. Nella selezione sono necessari pazienza, perseveranza e competenza, dote che si acquisisce solo con l’esperienza.
A metà degli anni ’90, a un convegno sul segugio organizzato a Viterbo, l’avvocato Fioravanti, figura di spicco nel mondo del segugio come allevatore, parlando della possibilità di formare una muta spiegò ai presenti come, per comporre una muta di quattro soggetti, fosse necessario averne in canile almeno quindici, soffermandosi così sulla necessità di scegliere su un numero elevato.
Un vecchio aforisma recita “una muta vale quel che vale il canettiere”, rimarcando così l’assoluta importanza della competenza di chi effettua la selezione. Al momento attuale è assolutamente impossibile entrare nella comprensione delle leggi naturali che regolano la genetica, però l’attenta osservazione della genealogia, pur senza alcuna certezza, quantomeno un indirizzo sulla selezione riesce a darlo.
Competenza, esperienza e un pizzico di fortuna qualche chance di realizzare il sogno possono fornirla. L’idea della muta, costruita semplicemente mettendo insieme specialisti, fornisce un’immagine di questa operazione alquanto distorta della realtà perché non rende l’idea della complessità dei problemi da superare. In effetti, molto spesso oggi si parla di mute in presenza di gruppi di cani che di omogeneo hanno il colore e che sono stati ridotti nella loro iniziativa in modo da restare più uniti sul lavoro oppure molto individualisti con poco collegamento tra di loro. In conclusione, solo in presenza di una vera muta si può giungere alla forma più elevata di caccia con un rendimento stilistico, non carnieristico, assai superiore come somma di valori morali ed estetici capace di offrire tutte quelle intime soddisfazioni di cui è tanto ricca la caccia col segugio.
Articolo concesso da Diana & Wilde / Edizioni Lucibello, marzo 2025
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