di Simon K. Barr
UGANDA - Sulle orme di Karamojo Bell
Nel semplice campo tendato della riserva di PiaNupe si parla di caccia e di conservazione in compagnia di personalità affascinanti, che fanno della caccia sostenibile uno stile di vita. Dopo gli anni del depauperamento delle sue risorse, dal 2012 è attivo un programma che ha già portato al recupero della biodiversità e nuove opportunità alla locale tribù dei Karamojong
Le strade su cui abbiamo guidato e i sentieri che abbiamo percorso in Uganda sono quelli di sempre, probabilmente gli stessi usati da uno dei cacciatori più iconici di tutti i tempi, Karamojo Bell. Ero a Karamoja, nel nord est della nazione, per cacciare con un'arma molto speciale: la riproduzione della carabina costruita secondo le specifiche di Bell, prodotta da John Rigby & Co. a Londra e adesso riproposta in allestimento commemorativo. Per rimanere fedele al suo modo di cacciare, avrei usato mire metalliche nella configurazione richiesta da Bell quando ordinò il suo .275 Rigby.
Ogni tanto, mentre ci inoltravamo silenziosamente nel sottobosco arbustivo, avvicinandoci agli animali selvatici, sentivo i capelli sulla nuca rizzarsi. Bell aveva usato questo albero per appoggiarsi o riposarsi meno di 120 anni fa? Questo animale era un discendente di uno che aveva cacciato? L'unica significativa differenza nella Riserva naturale di PiaNupe, più di un secolo dopo che Bell vi aveva cacciato gli elefanti, è proprio la mancanza di queste maestose bestie. Ma c'è l'ambizione di riportare il più grande mammifero terrestre del mondo nei suoi tradizionali terreni dell'Uganda.
Karamojo Bell, storia di un gentiluomo
Karamojo Bell, o William Dalrymple Maitland Bell, è un nome che dovrebbe raccontare qualcosa ai cacciatori di oggi. «Era un gentiluomo, un cacciatore veramente selettivo», mi ha detto Robin Hurt, lui stesso professional hunter e rinomato cacciatore, mentre una sera parlavamo al campo. Robin e suo figlio Roger sono giunti alla riserva su invito del principe Albrecht Oettingen-Spielberg, che ne ha assunto la concessione nel 2009 per esplicito consenso del governo ugandese.
Con l'allestimento nel 2012 di un campo safari, il team, di cui fa parte il manager del campo e ph Ade Langley, ha lavorato instancabilmente con l'Ugandan wildlife authority (Uwa) per ripristinare la fauna selvatica sotto gli auspici di Karamojong Overland Safaris. Robin ha colto al volo l'occasione per apprezzare i progressi compiuti, avendo cacciato l'ultima volta in quest'area più di mezzo secolo prima. «Non c'erano gli elefanti nemmeno allora. Mentre quelli cacciati da Bell venivano accuratamente selezionati, nei tempi successivi cacciatori di avorio senza scrupoli sono giunti nell'area e hanno compromesso l'equilibrio della popolazione», mi ha spiegato Robin.
Non è stata solo la caccia all'avorio a causare il declino o la scomparsa degli elefanti e di molte altre specie. La tribù locale, i Karamojong, vive di allevamento e ha allontanato la fauna autoctona in competizione con i bovini domestici. In combinazione con una popolazione umana in continuo aumento e una storia di disordini politici nell'area, incluso il governo del despota Idi Amin, prima della creazione della riserva si è assistito a un rapido declino delle specie e del numero di esemplari presenti. Anche dopo l'istituzione della riserva le comunità locali non erano motivate a preservare la fauna selvatica della zona, né a evitare un eccessivo pascolo del bestiame che andava a ridurre l'habitat della fauna selvatica. «Ma quello che vedo accadere qui ora è incredibile», mi ha confidato Robin. «Ci sono più animali di quanti ce ne fossero durante il mio ultimo viaggio nel 1969. E questo dimostra come la caccia controllata e la cooperazione con le comunità locali possano ripristinare la fauna selvatica di un'area in meno di un decennio».
Una caccia ispirata al passato
Per diversi giorni ho avuto la fortuna di cacciare con Gareth Lecluse e Ade Langley, che mi hanno guidato con straordinaria abilità mentre cercavamo i plain game locali. L'abilità di Gareth non è stata solo nel posizionarci nelle aree giuste ma - assecondando la mia intenzione di cacciare unicamente con le mire metalliche - anche di riuscire a farci avvicinare ai selvatici. Spesso nei safari ti ritrovi sbattuto sul retro di un veicolo per diverse ore ad avvistare gli animali, poi li insegui per alcuni minuti senza fiato per metterti in posizione a più di 150 metri di distanza; qui è stato diverso. Saremmo arrivati in una zona e avremmo trascorso il nostro tempo nelle antiche aree di caccia di Bell, avvicinandoci sempre di più agli animali che stavamo cacciando, con la possibilità di osservarli. Ci è voluto di più, ma mi è sembrato di camminare sulle orme dei giganti e, in effetti, c'erano ancora tracce del passaggio di elefanti nella zona.
Il campo stesso aveva il piacevole fascino della semplicità che offre l'alloggio in tenda rustica, ma con comfort e con panorami di una bellezza unica. Sono arrivato con la luna piena che illuminava il monte Elgon ai confini con il Kenya. Una giornata di acclimatamento mi ha dato la possibilità di fare qualche colpo di prova - non c'era bisogno di controllare lo zero, ovviamente, senza ottica. Mi ero esercitato molto prima di partire, assicurandomi di aver compreso i miei limiti, come si comportava il fucile e il funzionamento delle tre fogliette di mira regolate a 100, 300 e 400 yard. Ovviamente non avevo intenzione di sfruttare le distanze maggiori, perché uno dei motivi che mi spinge a sparare con le mire metalliche è proprio quello di avvicinarmi agli animali piuttosto che colpirli a distanza. Una buona rosata, leggermente alta a 80 metri, mi ha dato la certezza di essere pronto per quello che sarebbe successo. Mi sentivo riposato e preparato, così ho trascorso il primo giorno rilassandomi al campo.
Il sogno si realizza
Con questa modalità, un metodo di caccia lento ma molto più gratificante, il quarto giorno del nostro safari abbiamo rintracciato un vecchio maschio di Jackson's hartebeest (alcefalo di Jackson, Alcelaphus buselaphus lelwel) avvicinandoci e riuscendo finalmente a posizionarci a 120 metri. Avevo due strumenti di valore inestimabile per semplificare il mio compito: il telemetro compatto Leica CRF 2800.COM e un bastone. Questa strumentazione mi ha permesso di misurare con precisione le distanze ed essere stabile; di conseguenza non avrei mai azzardato un colpo.
Dal mio punto di vista, avendo provato entrambe, la caccia con le mire metalliche non è dissimile dalla caccia con l'arco. Il fattore limitante alle distanze maggiori è la vista, in particolare la capacità richiesta per mirare in un determinato punto dell'animale che oltre i 150 metri è totalmente coperto dal mirino. Le delusioni che si ottengono cacciando a distanza ravvicinata sono frequenti, ma la soddisfazione per il successo è amplificata rispetto a mirare un selvatico con un cannocchiale a 200 metri. Niente supera la sensazione che si ha quando si fa coincidere il mirino con la tacca e ci si allinea con il bersaglio. Con i selvatici di più ridotte dimensioni è un'arte, richiede pazienza e ancora altra pazienza, ma è sempre gratificante.
Due giorni dopo, ci siamo imbattuti in un vecchio maschio di bohor reedbuck (antilope isabella, Redunca redunca), una creatura di piccole dimensioni, bella e delicata. Siamo riusciti a inseguirla fino ad arrivare a una distanza di 130 metri, a sufficienza anche per me che continuavo a migliorare nella caccia con tacca e mirino.
Nell'ultimo giorno rimasto a disposizione, mi sono concentrato su un defassa waterbuck (antilope defassa, Kobus ellipsiprymnus defassa). Un'occasione davvero speciale, dal momento che è una specie che desideravo cacciare e per la quale ho atteso a lungo che si presentasse la situazione giusta. Dopo un buon inizio, abbiamo iniziato a infiltrarci tra numerosi waterbuck in un'area cespugliosa accanto al letto di un fiume in secca. Approfittando di tanta copertura, siamo stati in grado di avvicinarci inosservati a meno di 20 metri da un bel vecchio capo, il colpo più ravvicinato della settimana.
Non è questione di dimensioni
Alcuni cacciatori vanno in Africa per l'emozione di sparare ad animali selvatici pericolosi, eppure secondo me cacciare animali più piccoli con uno sweet little Rigby rifle è una delle esperienze più gratificanti. Questa tipo di caccia è difficile da superare. Dopotutto, non è solo una questione di dimensioni.
Le serate sono state affascinanti perché ero in compagnia di grandi personalità. Non solo Robin, il leggendario ph, ma anche Ade, che gestisce sul campo il Karamojong Overland Safaris, e il principe Albrecht, la cui visione e passione sono state determinanti nel progetto. È stato stupendo ascoltare questi tre gentiluomini, tutti cacciatori di grande esperienza e appassionati ambientalisti, parlare della Riserva PiaNupe, dei cambiamenti apportati nel tempo, delle prospettive per il futuro e delle avventure di Karamojo Bell e delle rispettive esperienze di caccia.
Cacciare per conservare
Una sera al campo abbiamo avuto l'onore di ospitare Frederiko Kizza, il capo dei guardiani dell'area di conservazione del monte Elgon, che comprende un parco nazionale e tre riserve naturali. Frederiko lavora con l'Ugandan wildlife authority ed è un grande sostenitore del progetto Karamojong Overland Safari.
Ho trascorso alcune ore a parlare del perché questo progetto stia funzionando così bene. Il modo di spiegare chiaro e conciso di Frederiko è prova della sua convinzione che la caccia controllata stia producendo enormi benefici sia per la fauna selvatica sia per le comunità della zona. «È stato scoperto che cacciare per conservare è possibile», mi ha detto, mentre sedevamo al campo, sotto la sola luce di una grande luna. «Abbiamo dieci anni di esperienza di caccia al trofeo nella riserva di PiaNupe e notiamo un ripopolamento con più specie e un numero maggiore di capi. È direttamente correlato, non ci sono dubbi».
Frederiko ha lavorato con molte comunità, anche per controllare il bracconaggio in questa e in altre zone: «Il bracconaggio è stato un problema enorme e i pochi animali sopravvissuti in passato si vedevano a malapena, rimanevano sempre nascosti. Ma ora sono proprio le comunità locali a segnalarci i bracconieri e riusciamo a fermarne molti grazie alle segnalazioni da parte delle persone del luogo. Le comunità vedono aumentare la fauna selvatica e ora possono anche mangiare legalmente la carne di selvaggina cacciata. Inoltre, grazie alla caccia controllata, vengono prelevati gli animali vecchi o malati, il che significa che quelli giovani, forti e sani possono continuare a riprodursi». Frederiko ha chiarito che non è stata solo una riduzione del bracconaggio, ma anche la selezione degli animali a permettere la conservazione delle popolazioni di fauna selvatica della zona. Fondamentali anche le ottime entrate economiche che la caccia ha portato nella regione: «I cacciatori si portano a casa pelli e trofei, le comunità ottengono la carne e buona parte dei guadagni di ciascun safari. Ciò le rende consapevoli del valore della fauna selvatica al di là del semplice consumo della carne e più rispettose. La vedono, ci guadagnano, continuano a consumare la carne e così desiderano conservarla».
Il segreto è la cooperazione
Anche Ade, che gestisce il progetto sul campo, è convinto che la cooperazione sia, insieme ai benefici portati direttamente alla comunità, un fattore decisivo per il successo del progetto. «Lavoriamo a stretto contatto con la popolazione locale e il 75% delle quote delle licenze va alle comunità locali», mi ha spiegato. «Diamo loro anche la maggior parte delle carcasse, tutto quello che non consumiamo al campo. In quest'area, la dieta è carente di apporto proteico ed è quindi un beneficio molto importante. Prima di far partire il progetto, erano frequenti gli sconfinamenti nella Riserva di PiaNupe. E di conseguenza c'era molto bestiame, che ha ridotto sempre di più l'habitat disponibile per la fauna selvatica. Noi siamo la prima presenza stagionale permanente in questa zona da oltre 50 anni». Ade e il suo team lavorano a tempo pieno nella gestione della riserva, con Uwa come partner supervisore, e conducono safari durante i quattro mesi della stagione arida.
«Ci abbiamo provato e siamo riusciti ad avere i villaggi dalla nostra parte, piuttosto che creare diffidenza. Luoghi come questo ne hanno bisogno, ma hanno anche bisogno del sostegno del governo ed è quello che stiamo cercando, oltre a lavorare a stretto contatto con l'Ugandan wildlife authority. Lavoriamo con le comunità per garantire che il bestiame non venga pascolato arbitrariamente, ma in maniera concordata e pianificata». Come spiega Ade, se è vero che il pascolo del bestiame è un problema, è anche vero che non si può tornare indietro di un secolo e sbarazzarsene: è necessario trovare un modo attuale e flessibile di gestione.
La prova del successo del progetto non è solo il numero di animali oggi presenti, ma anche le specie che nel tempo stanno tornando. Si vuole reintrodurre a breve la giraffa e il prezioso cobo ugandese, una specie rara di cobo unica in Uganda. E, come dice Ade, i safari fotografici o turistici diretti portano un reddito ridotto e non possono essere paragonati al reddito introdotto dalla caccia: «Il vicino parco nazionale ha migliaia di visitatori all'anno. I vantaggi per le comunità sono paragonabili a quelli che otteniamo qui, ma il problema maggiore è l'entità della presenza umana. Qui la nostra presenza è minima: lavoriamo per una stagione breve, dando lavoro probabilmente allo stesso numero di persone, ma per un numero molto ridotto di clienti».
Un presente migliore del passato
Mentre ci godevamo l'ultimo tramonto del mio viaggio in Uganda, ho chiesto a Robin di parlare dei suoi trascorsi in queste zone: «Ero il più giovane con alcuni tra i più famosi cacciatori professionisti: Brian Hern, Eric Anderson e pochi altri. Avevo solo 23 anni e ne sono rimasto affascinato. Fui totalmente preso dalla bellezza del paesaggio. La vegetazione è molto simile, ma alcune cose sono cambiate. A quei tempi, c'erano molti leoni; poi il numero di capi di bestiame è aumentato e non mi sorprende che i leoni siano stati uccisi. Ci sono anche meno zebre ma, in generale, ora c'è molta più fauna, il che è notevole. Di bufali, per esempio, ne abbiamo visti più di 120, straordinario rispetto a quello che vidi mezzo secolo fa».
«Non c'erano elefanti, 52 anni fa, e non ci sono ora, ma Frederiko mi ha detto che stanno colonizzando aree in cui non si vedevano da decenni, quindi c'è speranza di farli tornare anche qui. Il governo ugandese non avrebbe potuto trovare persona migliore del principe Albrecht a cui affidare la buona riuscita della riserva di caccia di PiaNupe. Sono convinto che il modo in cui lui e Ade gestiscono la riserva sia l'unico efficace per riportare la fauna selvatica in queste aree. È ciò che facciamo anche in Tanzania e ciò che ha salvato la fauna selvatica in Namibia. Le comunità locali sono i nostri occhi e le nostre orecchie, ci informano quando ci sono bracconieri o quando c'è un animale malato o qualcosa va storto. Finché sarà garantito un accesso ragionevole al pascolo, questo è un piano che garantisce il futuro per la fauna selvatica della regione. Quando ero un ragazzo, c'erano gruppi di persone circondate dalla fauna selvatica. Oggi ci sono gruppi di fauna selvatica circondate da persone».
L'affermazione di un modello di gestione
L'ultima parola nel racconto della mia avventura su una terra così prezioso è d'obbligo che torni al nostro ospite, il principe Albrecht. La sua visione e la sua determinazione sono state il catalizzatore e la forza trainante di un progetto di grande successo nella Riserva PiaNupe, che unisce caccia e conservazione a beneficio delle comunità locali e della fauna selvatica. Non solo, Albrecht ha anche un'impressionante conoscenza enciclopedica di Karamojo Bell e delle sue storie in questa zona: «Quello che Robin ha detto sul numero degli animali è di grande incoraggiamento, così come il fatto che il governo ugandese riconosca che questo progetto sta funzionando come modello. È sorprendente ascoltare com'era questa zona 52 anni fa quando Robin vi cacciava a 20 anni.
Spero che potremo rimanere qui a lungo e continuare ad aiutare l'ecosistema della regione. La personalità di Bell mi commuove: ha imparato la lingua e l'ha amata e, come ogni cacciatore, ha amato il paesaggio. Quando leggi i suoi libri, potresti pensare che ci fossero elefanti dietro ogni angolo, ma Bell camminava per giorni, settimane o mesi per rintracciarli e, come ha detto Robin, era molto selettivo. Ciò che diventa chiaro è che ebbe successo solo perché nelle sue uscite di caccia riusciva ad avere la collaborazione della gente del posto. Mi piace il fatto che stiamo facendo lo stesso: stiamo creando collaborazioni durature con le persone del luogo e stiamo lavorando per una forma di migliore di gestione delle risorse proprio con il loro aiuto».
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